Paflasmòs

lunedì 19 dicembre 2016

Il simbolo della guerra era un palloncino...


Il simbolo della guerra era un palloncino 

gonfiato d’elio, 

tutto rosso con una macchia blu.



E l’uomo aspettava i seguaci col suo palloncino allacciato al polso, assolutamente buffo con le sue armi in pugno, l’elmetto e la mimetica, le bombe a mano ed il fucile in spalla.
Aspettava.
Solo, in una grande piazza di cemento.

Passò un bambino, una sera, mentre lui dormiva accanto ad un falò, col suo coltello fra i denti e la pistola sotto il fianco.
Passò un bambino, dicevo, e gli rubò il simbolo della guerra. E proprio quella sera arrivarono gli alleati, i guerrieri del pallone.


E il bambino, col suo palloncino, cominciò a camminare sotto le stelle, silenzioso nel silenzio della sua mente, del suo mondo.
Sorrideva alle stelle perché era libero. Era andato a fare un giro e chissà quando sarebbe tornato dalla mamma....

Ma nel suo mondo non esisteva il tempo.

E con i suoi occhi grandi e puliti e il suo sorriso meravigliato, cominciò a camminare con quel simbolo di guerra appresso.
Nessuno conosceva l’uomo che avrebbe portato il pallone. Tutti i soldati arroganti, feroci, arrabbiati seguivano il pallone, e il pallone seguiva il bambino, e il bambino seguiva i suoi sogni.

E passò per strade e prati, e sfiorò con le labbra i fiori ed essi, ai suoi piedi, spuntarono per appassire presto all’arrivo delle armi.
E i soldati, sempre più arrabbiati, avanzavano ciechi al mondo, sordi ai rumori, muti fra loro.
E le armi pesavano. Il pallone no.
E il bambino, felice del suo stupore, andava avanti senza stanchezza: aveva sfiorato il mare, punto la neve, baciato i fiori, cavalcato i caprioli, dormito nel marsupio di un canguro dondolante, accompagnato una formica al di là del fiume, scrutato l’acqua del lago, bevuto la pioggia, assaporato il sole. Ed era felice.

I soldati erano man mano di più e man mano più stanchi: avevano snobbato il mare, sporcato la neve, strappato i fiori, mangiato i caprioli, sventrato i canguri, calpestato le formiche, inquinato l’acqua del lago, maledetto la pioggia e maledetto il sole e così... avevano cominciato a lasciar per strada le armi e pian piano ad aprire gli occhi.

E il bambino cammina, ancora con il sorriso stampato sul viso e il filo del palloncino stretto tra le dita.
Il cielo è più azzurro e i soldati, alcuni, lo vedono; altri odorano i fiori, altri godono dell’erba fresca, altri giocano nel fiume, altri imitano le formiche.
Ma vanno avanti ancora, con le poche armi rimaste.
Il bambino giunge in un prato grande, chiuso da boschi, verde come i suoi occhi. E vola un uccello sul suo pallone e lo buca.
Il bambino resta deluso e torna verso casa. I soldati non hanno più una guida e si fermano nel prato accanto al ruscello, vicini ai cerbiatti.
Buttano le armi rimaste, reimparno l’amore.

Il bambino ha visto abbastanza ed ora torna a casa. Sulla strada raccoglie le armi lasciate dai soldati e durante il cammino diventa adulto.

Arriva alla piazza di cemento, armato fino ai denti, con le armi in pugno, l’elmetto e la mimetica, le bombe a mano ed il fucile in spalla.
Compera un altro palloncino rosso con la macchia blu e si addormenta accanto al falò col suo coltello fra i denti ed il pallone legato al polso.

Si addormenta, dicevo, e sogna la guerra.




Elena Furio, 1982






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